martedì 21 giugno 2016

Molière. Poetica, senso del comico e innovazione.



Moliere in un ritratto di Pierre Mignard, 1658 circa.

Pare che, fuori dalla scena, Molière (1622-1673) fosse di poche parole e avesse un carattere non particolarmente allegro, ma fu autore e interprete di commedie che vennero considerate dei classici già dai suoi contemporanei e che vengono oggi rappresentate per la loro attualità nel descrivere situazioni e caratteri, che –tolte le circostanze specifiche in cui si sono originati- ci appaiono ancora universali.

Sebbene all’inizio della sua carriera teatrale avesse desiderato di essere un attore tragico, le sue abilità comiche ebbero la meglio e i suoi progetti cambiarono. Oltre che drammaturgo ammirato per i suoi finissimi versi e capocomico, infatti, fu un attore comico molto stimato dai contemporanei per la presenza scenica e la straordinaria espressività del volto.

E’ ragionevole pensare che le sue capacità di attore abbiano influenzato la sua scrittura, poiché scrisse per sé stesso molti ruoli, a cui la sua energia e la sua mimica potessero dare corpo. Esplorò ruoli differenti: il collerico, il servitore, il borghese sciocco, il marito dominato dalla moglie, il vecchio superstizioso.

Nelle sue opere, la vitalità del personaggio prevale sulla trama e talvolta anche sul rispetto delle regole aristoteliche di unità di luogo, di tempo e di azione, che nel XVII secolo erano considerate imprescindibili (come spesso capita, i grandi autori fanno e disfano le regole).

Nonostante le critiche (letterarie o morali), a volte feroci, e le censure, che bloccarono le repliche di alcune sue commedie, Molière impose un nuovo stile di recitazione, privo della pomposità allora tanto in voga nei teatri, più vicino alla naturalezza quotidiana; uno stile che implicava una differente scrittura, poiché il linguaggio, contrariamente alla consuetudine del tempo, si adattava alle caratteristiche del personaggio (un servitore ignorante non poteva esprimersi con gli stessi modi di un medico o di un intellettuale), facendo così prevalere la verosimiglianza sulla pedissequa perfezione della forma.

Molière rivendicò la verosimiglianza come caratteristica propria della commedia: nella Critica della Scuola delle mogli (scritta per difendere la sua commedia La scuola delle mogli), affermò che, se la tragedia può essere eroica, nella commedia non si ottiene nulla a meno che non si tratteggino dei personaggi che il pubblico riconosca vitali, veritieri. <<Far ridere la gente –scrive Moliere- è uno strano lavoro>>.  

Venne aspramente criticato anche per Don Giovanni e Tartufo e a difesa di quest’ultimo, scrisse una lettera al re Luigi XIV (Lettre sur la comédie de l’Imposteur ), in cui esponeva il suo concetto di commedia.
<<Il comico è la forma di generosità esteriore e visibile che la natura ha associato ad ogni cosa irragionevole, cosicché possiamo riconoscerla ed evitarla. Per conoscere il comico, dobbiamo conoscere il razionale, del quale esso denota l’assenza […] l’incongruenza è il cuore della comicità.>>
Molière afferma che la comicità sorge dalla possibilità di confrontare simultaneamente il razionale e l’irrazionale, cogliendo l’assurdità delle situazioni e delle azioni dei personaggi.

Scena dal Misantropo
in una stampa del XVII secolo
Un’altra peculiarità della sua scrittura è la commistione di registri diversi, anche nel medesimo personaggio. Il personaggio creato da Molière ha ovviamente una sua storia e sue motivazioni, ma a tratti è richiesto all’attore che lo interpreta di dimenticarsene o di calcare la mano sul ruolo stesso, passando dinamicamente da un gioco scenico all’altro.
La commistione è utilizzata anche per ottenere determinati effetti negli spettatori, p.es. l’indifferenza alle sofferenze dell’Avaro derubato, dovuta al contrasto tra la penosa situazione e il suo linguaggio aggressivo, o l’amarezza che nel Misantropo è generata dal confronto tra giustizia ideale e giustizia istituzionale, che non sempre coincidono.


Il motivo per cui Molière venne spesso attaccato, in maniera più o meno formale (e con conseguenze più o meno gravi), risiede in alcuni temi presenti nelle sue opere.
La scuola delle mogli (1662) scatenò la polemica su un tema di grande interesse in quel periodo: l’educazione femminile. Nella commedia, la protagonista, cresciuta in un ambiente repressivo, prende in mano la propria vita agendo contro il parere del suo tutore. L’inno all’amore per la vita e all’emancipazione femminile venne visto come una minaccia alla morale e alla religione.
Il “partito dei devoti” contrastò aspramente anche Tartufo (1664), per la denuncia dell’ipocrisia religiosa e della falsa devozione che emerge dalla vicenda.
Il ruolo della religione nell’etica e nella morale ipocrita della società del suo tempo compare anche in Don Giovanni (1665), mentre nel Misantropo (1666) si rappresenta la spietatezza e la superficialità del mondo aristocratico parigino. Il malato immaginario (1673) sbeffeggia la medicina antiquata e oscurantista del XVII secolo.

Molière spesso raffigura personaggi tragici, anche se resi ridicoli da quel gioco delle contraddizioni in cui è così abile, e oppone, alla stantia morale delle apparenze, un’etica del buon senso, che non riesce a trovare un punto d’incontro con le radicate convenzioni sociali.




Bibliografia:
www.britannica.com
Giorgio Sale, Introduzione, Il teatro, vol.12 Molière, Il Giornale

Immagini:
www.britannica.com

martedì 14 giugno 2016

Vicini sullo scaffale. Rilke, Baudelaire e il mestiere della scrittura.



I vicini sullo scaffale sono due libricini che mi piace tenere appunto uno accanto all’altro nella libreria: uno è di Rainer Maria Rilke, l’altro di Charles Baudelaire.
Hanno quale tema comune il mestiere dello scrivere ed entrambi non erano stati concepiti dai rispettivi autori come un testo unico: sono raccolte di scritti rivolte ad aspiranti scrittori.
Forse avrete intuito che si tratta del celeberrimo Lettere ad un giovane poeta di Rilke e del forse meno noto Consigli ai giovani scrittori di Baudelaire.
Estremamente differenti nei contenuti e nello stile, eppure entrambi utili come strumenti di formazione permanente, nel senso che rileggerli di tanto in tanto può essere illuminante.
Perché ne parlo in questa sede? Perché i consigli di cui sopra, oltre che esser letti da drammaturghi in erba, possono essere rivolti con uguale efficacia ad ogni artista, a chiunque voglia dedicare la propria vita all’Arte, al Bello, a fare di sé strumento privilegiato delle Muse.

Quella di Rilke è una raccolta di lettere scritte tra il 1903 e il 1908 al giovane sig. Kappus, poeta in cerca della propria vocazione.
Rilke gli suggerisce di guardarsi dentro:
Rainer Maria Rilke
“Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le sue radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? [...] Se lei potrà affrontare con un semplice e forte ‘io devo’ questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza.”
L’urgenza di scrivere, il dover scrivere definiscono il poeta e così la sua opera.
“Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. E’ questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è.”
L’opera scaturisce dal fatto stesso di essere un poeta, quindi il poeta è chiamato a vivere come tale ogni momento della sua vita. Un poeta riesce a vedere la bellezza in ogni giornata, nei ricordi della propria infanzia come nelle esperienze nascenti.
La solitudine è la condizione necessaria ad ogni conoscenza, la modalità attraverso cui entrare in relazione con le cose e quindi raccontarle.
Rilke non attribuisce grande rilevanza alla professione che il poeta svolge per vivere: “Anche l’arte –dice- è solo una maniera di vivere, e a essa ci possiamo preparare, senza saperlo, vivendo in qualche modo” poiché le siamo prossimi “in ogni cosa reale”. Viene da dedurre che il poeta, secondo Rilke,  sia tale in ogni momento, in ogni azione, l’arte gli è sempre vicina.
Il poeta è chiamato a volgersi alle profondità di sé, alla natura e ad attenersi “al difficile”.
“Tutto ciò che vive vi si attiene, tutto in natura cresce e si batte a modo suo ed è per sua costituzione una cosa a sé, e cerca di esserlo a qualunque prezzo e contro ogni resistenza. Sappiamo poco, ma che dobbiamo attenerci al difficile è una certezza che non ci deve abbandonare.”
Difficile è la stessa solitudine.
Difficile è l’amore, “il lavoro che ogni lavoro non fa che preparare”, “una sublime occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualcosa, di diventare mondo per sé per amore di un altro, è una grande, immodesta pretesa a lui rivolta, qualcosa che lo presceglie e lo chiama a vasti uffici.”
Difficile il sesso: “l’esperienza artistica è così incredibilmente prossima a quella sessuale [...] poiché anche la creazione spirituale trae origine da quella fisica, è della stessa natura, è solo una più sommessa, estatica ed eterna replica della voluttà del corpo.”
Difficili la pazienza, la morte.
In poche pagine, viene descritta l’intima natura dell’artista, o dell’essere umano che voglia trovare la propria via.

Charles Baudelaire
Nei suoi Consigli ai giovani scrittori, Baudelaire utilizza toni graffianti e cinici. Il breve saggio venne pubblicato la prima volta nel 1846 su L’esprit public e nell’edizione in mio possesso si trova insieme ad altre due saggi: Come si pagano i debiti quando si ha del genio, da cui apprendiamo che i ghost writers esistevano anche nel XIX secolo, e Scelta di massime consolanti sull’amore, a mio avviso leggermente delirante e un po’ (per usare un termine dello stesso Baudelaire) “arruffato”, che nell’insieme è un’esortazione ad amare. Scrive Baudelaire: “L’amore è per tutti –hanno un bel negare – la grande cosa della vita!”
E veniamo ai consigli per gli scrittori.
“I giovani scrittori che, parlando di un giovane collega con un accento misto a invidia, dicono: ‘È un bell’esordio, ha avuto una fortuna sfacciata’ non riflettono sul fatto che ogni esordio è sempre stato preceduto e che è l’effetto di altri venti esordi a loro ignoti.”
Si direbbe un pragmatico richiamo a metter da parte l’invidia e a rimboccarsi le maniche.
Per questo mi piace tener vicini nella libreria questo saggio e quello di Rilke, perché una volta che un artista sappia nel profondo di esser chiamato ad essere tale, si troverà ad affrontare situazioni ordinarie non irrilevanti, come l’impegno richiesto dalla sua stessa arte, la ricerca della possibilità di essere pagato per essa, la necessità umanamente comune di conciliare la propria attività prediletta con altre incombenze e con le proprie relazioni.
“Al giorno d’oggi –scrive Baudelaire – occorre produrre molto, occorre andare veloci [...] Per scrivere velocemente occorre aver molto pensato, essersi portati dietro un soggetto a passeggio, al bagno, al ristorante, fin anche dalla propria amante.”
Baudelaire non segue il metodo di alcuni suoi contemporanei di “riempire molta carta” per poi sfrondare, ritiene che questo sia “abusare del proprio tempo e del proprio talento”. L’opera esiste prima nella mente, poi prende forma sulla carta. Personalmente, mi sento in sintonia con questo pensiero.
E ancora: “L’orgia non è più sorella dell’ispirazione [...] Un cibo molto sostanzioso, ma regolare, è l’unica cosa necessaria agli scrittori fecondi. L’ispirazione è certamente sorella del lavoro giornaliero.”
L’ispirazione può essere allenata, sfruttando la “meccanica della mente”.
Scrivere insomma è uno stile di vita ed è meglio che esso sia più regolare possibile:
“Che il disordine abbia a volte accompagnato il genio, è solo prova che il genio è tremendamente forte [...] Non abbiate creditori, se proprio volete, fate finta di averne, è tutto quello che posso concedervi.”
Se quanto detto sulla velocità richiesta dai tempi pare applicabile anche ai nostri giorni, non saprei se dire altrettanto sulle considerazioni in merito alla poesia. Che io sappia, gli editori rifuggono dai poeti, ma chissà, forse Baudelaire sapeva il fatto suo affermando che “ogni uomo in salute può fare a meno del cibo per due giorni, della poesia mai”. È possibile che oggigiorno non siamo molto in salute...
Dispensa qualche consiglio anche sulla più opportuna scelta delle donne. Gli scrittori, “intelletti affaticati”, dovrebbero accompagnarsi solo a “due classi possibili di donne: le prostitute o le donne stupide, per l’amore o per la vita domestica.” Varrà anche per le scrittrici e la scelta degli uomini? Su questo tema, le considerazioni di Rilke sono decisamente più interessanti e, possiamo dirlo senza drammi, meno sessiste, ma erano già altri tempi.

Concludendo, questo mio arbitrario confronto tra due grandi poeti mi appassiona: entrambi i poeti offrono consigli resi autorevoli dalla loro stessa esperienza e, nell’incrociare le loro parole, ci introduciamo in quella zona difficile da definire che sta tra la autoespressione autentica e la comunicazione efficace.  Può esistere un artista incompreso? Siamo artisti perché sentiamo di esserlo o perché gli altri ci riconoscono tali? Forse lo siamo solo se si verificano entrambe le cose? Penso che ogni poeta, romanziere, attore, drammaturgo, cantante, pittore, scultore, danzatore, musicista si sia trovato almeno una volta nella vita a porsi interrogativi simili.
Nel mio personale dizionario, questo tentativo di conciliare poli (apparentemente?) opposti l’ho denominata come dialettica Rilke-Baudelaire; ed è questo il motivo per cui sullo scaffale i due piccoli volumi stanno insieme. 


Bibliografia

R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, 1994, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
C. Baudelaire, Consigli ai giovani scrittori,  2000, Passigli Editore, Firenze