sabato 11 luglio 2015

Il lavoro nel teatro secondo David Mamet. (una recensione di "Note in margine a una tovaglia" di D. Mamet)



David Mamet

<<L’artista che lavora per il teatro assolve nella società alla stessa funzione cui assolvono i sogni nella vita del subconscio –la vita inconscia dell’individuo. Siamo destinati a provvedere ai sogni del corpo sociale, siamo i fabbricanti di sogni della società.>>

Con queste parole, David Mamet, drammaturgo e sceneggiatore contemporaneo, descrive il lavoro nel teatro, lavoro inteso come forma artistica e non solo come intrattenimento. 
Attori, scenografi, autori sono tramiti attraverso i quali si esprime l’anima del tempo.
Il loro lavoro manifesta una visione che può ispirare una generazione, ma non più a lungo, perché poi, quando la visione viene completamente recepita e codificata, cessa di essere tale e diventa istituzione. Anche l'istituzione ha i suoi meriti, serve a tramandare il sapere, ma distaccandosi da quella che è stata una deterinata visione, perchè, una volta che abbia assolto alla sua funzione, la visione in sé non ha senso di essere tramandata.
Quello che si può tramandare alle generazioni successive è la filosofia, la morale e l’estetica del teatro. Come? Attraverso la tecnica, ossia attraverso <<quelle capacità che mettono l’artista in grado di rispondere pienamente, sinceramente e con amore a ciò che desidera esprimere>>. L’acquisizione della tecnica rende possibile il raggiungimento dello scopo del teatro, che è la produzione di senso. Citando Stanislavskij, Mamet afferma che lo scopo del teatro è <<portare alla luce l’anima vivente dell’uomo>>. Il teatro abolisce le chiacchiere inutili, il teatro è il luogo della verità.

Mamet dà qualche indicazione per chi scrive per il teatro.
Il drammaturgo dovrebbe attenersi alla regola aristotelica dell’unità di azione; sebbene il pubblico possa essere affascinato dalle caratteristiche dei personaggi e dalla loro psicologia, ciò che maggiormente gli interessa è quello che sta succedendo sulla scena. Il drammaturgo dovrebbe sempre tener presente la domanda: <<Adesso cosa succede?>> e scrivere azioni. È un lavoro impegnativo. <<È più facile scrivere bei dialoghi, che scrivere belle trame.>>
Secondo Mamet, tutte le opere teatrali si occupano del declino, di una situazione cioè che ormai ha raggiunto un completamento e che inevitabilmente va incontro ad un momento di disordine. L’opera drammaturgica si colloca in quel momento, riproponendosi di ristabilire l’ordine. Il compito del drammaturgo e della rappresentazione drammatica è quello di <<osservare e rappresentare il declino e il modo in cui si dirige verso la quiete finale – e offrire quel conforto che è compimento naturale della quiete.>>
L. Barbareschi e L. Lante della Rovere (1993)
in una rappresentazione di Oleanna di D. Mamet
Viviamo in tempi di declino e quindi il lavoro drammaturgico è ancor più rilevante.
Lo scopo del drammaturgo è <<far conoscere agli altri […] la possibilità di un’intima unione con ciò che vi è di essenziale in tutti noi: il fatto che siamo nati per morire, che lottiamo e veniamo sconfitti, che viviamo non sapendo perché ci troviamo qui e che, nonostante tutto, abbiamo bisogno di amare e di essere amati, ma abbiamo paura.>>

Non ci sono scorciatoie esistenziali per coloro che si misurano con uno scopo così alto: chi desidera imparare l’antica arte del raccontare storie è destinato a soffrire, a ripetere a se stesso se valga la pena di prendersene la briga. <<E la risposta –scrive Mamet agli artisti di teatro- è che dovete prendervene la briga solo se siete stati scelti per questo, in caso contrario, non fatelo.>> L'artista, quindi, sente di essere chiamato ad essere tale, tuttavia, spesso si trova in mezzo ad una battaglia tra volontà e paura. Tale battaglia è anche l’aspetto fondamentale di ogni opera drammatica, cioè <<la lotta tra ciò che si è chiamati a fare e ciò che si preferirebbe fare. L’esposizione a tale battaglia è l’educazione al tragico.>>
Cercando di comprendere cosa deve fare della sua vita, l’artista di teatro si avvicina alla filosofia, alla meditazione, alla recitazione, fino a far coincidere personalità e lavoro e poter quindi adempiere al proprio scopo, che è mettere in scena il nostro bisogno culturale di affrontare la domanda: <<Come faccio a vivere in un mondo che mi condanna a morire?>>

Mamet non parla solo del drammaturgo, ma anche del lavoro dell’attore.
L’attore condivide col drammaturgo gli scopi del proprio lavoro, il proprio compito di rappresentare l’anima dell’uomo. Partendo dal presupposto imprescindibile che la bravura in teatro è la capacità di dare, la bravura dell’attore non sta nello stabilire dei canoni, ma nel creare il presente, liberamente, tenendosi a debita distanza dalla ricerca dell’approvazione e dell’autocompiacimento. L’abilità di recitare si acquisisce attraverso una lunga pratica e miglioramenti infinitesimali, che si scorgono a malapena; è un’abilità che si può anche perdere, commettendo l’errore di dare per scontate -e a mano a mano abbandonare- abitudini che si sono conquistate a caro prezzo. Il modo migliore di studiare è farlo apprendendo da un artista, da qualcuno in grado di usare la tecnica teatrale.
L’attore eccelso è un attore che Mamet definisce organico, un attore generoso e coraggioso, che non recita meccanicamente, che mantiene la propria attenzione verso l’esterno, verso quello che sta cercando di ottenere e non verso i propri sentimenti.
La recitazione <<finta e meccanica>>, purtroppo molto diffusa, è rassicurante, segnala al pubblico che non sta succedendo nulla di inquietante, ci dice che siamo al sicuro, ma ci inganna e ci annoia.
Il teatro meccanico risponde al nostro bisogno di possesso, mentre il teatro organico risponde al nostro bisogno di amore.
L’attore organico porta in scena <<il desiderio invece della completezza, la volontà invece dell’emozione>>. Dopo aver partecipato ad uno spettacolo organico, uscendo dal teatro, invece di commentare la tecnica dell’attore, ci verrà spontaneo parlare della nostra vita.




Bibliografia

D. Mamet, Note in margine a una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro, 2004, Minimum Fax, Roma

Immagini

http://www.goodmantheatre.org/artists-archive/creative-partners/playwrights/david-mamet/
http://en.casanovamultimedia.it/produzioni/oleanna/

mercoledì 18 marzo 2015

L'Orestea di Luca Ronconi.



Orestea di Luca Ronconi.
Marisa Fabbri nel ruolo di Clitemnestra

Luca Ronconi (1933-2015) rappresentò l’Orestea di Eschilo nel 1972, cambiando il modo di rappresentare la tragedia greca in Italia.
La scelta di mettere in scena l’intera trilogia in un’unica serata, in sette ore di spettacolo, oltre che impegnativa era innovativa. Dalle parole dello stesso Ronconi, la scelta << sottintende l’interesse ad un discorso sul pensiero mitico. […] L’opera di Eschilo non viene considerata un blocco monolitico, ma, secondo il principio di discontinuità, un insieme disuguale che dia luogo a uno spettacolo scrupolosissimo, rispettoso del testo stesso ma fatto di tanti prismi, di dissimili frammenti, destinati a ricostruirsi in un tutto alla fine della mente dello spettatore.>>

Lo scrupoloso rispetto del testo inizia dalla traduzione letterale di Mario Untersteiner, mentre il rilievo attribuito al pensiero mitico indica una predilezione per una lettura antropologica del testo stesso, piuttosto che per una lettura psicologica, nel tentativo di compiere un viaggio a ritroso alle origini pre-classiche del mito e ricostruirne le trasformazioni.
La guerra di Troia, lo scontro tra Occidente e Oriente, nell’opera di Eschilo, vede il trionfo della democrazia ateniese; nell’interpretazione di Ronconi, a vincere è l’ideologismo di parte, che finisce col rendere schiavo Oreste, immagine dell’uomo moderno.  Oreste non ha possibilità di salvezza, devastato interiormente dalla perdita d’identità ed esteriormente dalla perdita della storia.

Il principio di discontinuità, spiega De Marinis è <<un procedimento drammaturgico che, mediante la ripetizione e la simultaneità, infrange lo sviluppo lineare ed unitario della vicenda, cercando così di impedire ogni attitudine acritica ed immedesimativa dello spettatore nei confronti dell’evento teatrale.>>

La macchina scenica e la recitazione sostengono tale procedimento.
Lo spazio scenico è concepito per essere mutevole.
Un piano rettangolare di legno, oscillante sul suo asse trasversale, manovrato a vista, sul quale irrompono due montacarichi che costituiscono altri luoghi dove si svolge l’azione, è lo scenario della prima tragedia.
Per la seconda, Ronconi restringe lo spazio dentro le mura di una casa e il palcoscenico rimane stabile.
La terza tragedia è collocata per le vie di una città, in cui la macchina scenica torna a muoversi, ma in maniera più lineare e funzionalistica.
Il cambiamento segna il passaggio culturale dal passato caotico originario, alla stabilità di una cultura civilizzata, fino ai movimenti ordinati di una città che potrebbe anche essere futura.

L’utilizzo di oggetti simbolici ha quasi la funzione di integrare il linguaggio, di cui si preferisce enfatizzare i suoni, i significanti, rispetto ai significati.
Secondo Ronconi: << ogni concetto enunciato dovrà trovare una corrispondenza visualizzata nell’esercizio di una determinata attività, come nell’esibizione o nell’utilizzazione di particolari oggetti o simulacri allusivi.>>
Alcuni esempi: la terra (simbolo della madre) che rotola giù per la scala all’ingresso di Clitemnestra nell’Agamennone; la sagoma di pane di Ifigenia, che viene fatta a pezzi e mangiata dal coro, come per una comunione; la farina (simbolo della casa), su cui Oreste lascia le impronte nelle Coefore; i manichini senza volto, che rappresentano i giudici dell’Aeropago nelle Eumenidi; il letto d’ospedale (simbolo di un male esistenziale), sul quale Oreste attende il verdetto.

Il lavoro sull’attore destruttura la tradizione precedente che interpretava la tragedia con una solennità non più comunicativa. Ronconi cerca la potenza espressiva originaria della parola, capace di suonare come nuova, di generare stupore. Lavoro affidato soprattutto alla recitazione di Marisa Fabbri, nel ruolo di Clitemnestra. Nell’ Agamennone il suo modo di parlare è lento e spezzato, come se le parole venissero pronunciate per la prima volta nella storia umana, come se nascessero in quel momento da un’ispirazione divina.
Sublime anche l’interpretazione di Mariangela Melato, nel ruolo di Cassandra. Quadri la descrive così: << Quando disserra la bocca nel primo dei suoi lamentosi e dolcissimi ahimè, scopre una nuova dimensione sonora, proiettata verso le note alte e ostinatamente vicina al canto monodico…fino al gemito o alla pura sonorità.>>
Nelle Coefore e nelle Eumenidi, Marisa Fabbri si esprime con moduli recitativi più quotidiani, riabbracciando una interpretazione psicologica che nell’Agamennone era assente.
È Glauco Mauri, nel ruolo di Oreste, a farsi interprete di uno stile recitativo più consueto, naturalistico, il ritmo delle sue parole è più veloce e il tono a tratti melodrammatico. Oreste non rappresenta un principio divino, ma un individuo umano. Nelle Coefore Glauco Mauri indossa abiti moderni e nelle Eumenidi, dove appare invecchiato, il suo grosso cappotto lo fa assomigliare ad un personaggio di Beckett. Come in Beckett, al termine della vicenda, Oreste non riesce a proferire parola.
Ronconi disegna una sorta di linea parabolica della comunicazione: dalla nascita della parola come espressione divina, al suo uso retorico ed ideologico (simboleggiato nella dialettica di Apollo e di Atena), allo svuotamento di significato della contemporaneità.


Allegati:
L'Orestea di Ronconi è stata ripresa per la televisione e trasmessa dalla Rai.

Nei seguenti video è possibile vedere (o rivedere) parte dello spettacolo:

  
Immensa Melato, da brivido! Io la adoro! (N.d.R.)


Bibliografia e Sitografia

F. Gavazzi, Il lavoro sullo spazio e sull’attore nell’Orestea. In AA VV, Luca Ronconi e il suo teatro, 1991, Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica, Milano

L’immagine è tratta dall’ Archivio multimediale degli attori italiani, 2012, Firenze University Press, Firenze

Per i video:
www.youtube.com
Per approfondimenti:
M. De Marinis, Avanguardia e tradizione: l’Orestea di Luca Ronconi, “Rendiconti”, fascicolo 26/27, gennaio 1974, p.151
C. Milanese, La realtà del teatro, 1973, Feltrinelli, Milano
F. Quadri, Il rito perduto, 1973, Einaudi, Torino

http://www.lucaronconi.it/mostraronconi_scheda.asp?num=21