sabato 16 luglio 2016

La questione della partecipazione emotiva dell’attore nei secoli XVIII e XIX. Seconda parte – Il paradosso di Diderot, il naturalismo, Coquelin, Archer, Lewes, Salvini.



Marie Francois Dusmenil

Il filosofo Denis Diderot attacca la teoria emozionalista e scrive in proposito un saggio diventato celebre: Paradoxe sur le comédien, Paradosso sull’attore.
Scritto in forma di dialogo, viene inizialmente divulgato come manoscritto. La prima stesura è del 1773 ma viene dato alle stampe solo nel 1830.
Secondo la teoria del paradosso, l’attore può rappresentare efficacemente i sentimenti richiesti dalla parte solo se non li prova realmente.
L’argomentazione di Diderot riguarda due temi principali: la sensibilità dell’attore e la differenza tra esperienza reale e teatrale.

Secondo Diderot, per provare i sentimenti propri del suo ruolo, l’attore deve avere una sensibilità particolarmente acuta, <<una disposizione, compagna della debolezza dell’organismo, effetto della mobilità del diaframma, della vivacità dell’immaginazione, della delicatezza dei nervi>> una disposizione che conduce <<a non aver alcuna idea precisa del vero, del buono e del bello, a essere ingiusti, a essere folli>>.
La recitazione basata sulla sensibilità è dunque incontrollabile e soggetta all’instabilità delle emozioni: l’attore potrebbe trovarsi nel corretto stato emotivo in un determinato momento ma non più nella scena successiva e quindi risultare poco espressivo, e gli sarebbe estremamente difficile compiere il passaggio da un’emozione all’altra nell’avvicendamento dell’intreccio, perdendo così <<la coerenza dell’insieme>>. L’emozione inoltre potrebbe facilmente <<consumarsi>> di replica in replica, poiché il coinvolgimento diminuisce con la ripetizione.
Diderot aggiunge che l’attore, a maggior ragione se dotato di una profonda emotività, non può evitare di essere condizionato dai sentimenti privati, che lo allontanano dallo stato emotivo consono alla sua interpretazione, compromettendo così i suoi requisiti fondamentali: controllo, stabilità, ripetibilità.

Per quanto riguarda la discrepanza tra realtà e rappresentazione teatrale, riprendendo Lessing, Diderot sostiene che la manifestazione reale delle situazioni e delle reazioni emotive risulta inadeguata sulla scena, in parte per via delle caratteristiche dello spazio teatrale (che richiede all’attore gesti e voce più “forti”) e in parte perché il teatro non deve rappresentare individui reali, ma tipi ideali. Entrambi sembrerebbero ridicoli gli uni al posto degli altri. L’esemplarità del personaggio richiede inoltre che l’attore eviti <<smorfie>> realistiche come succede quando proviamo un grande dolore; il personaggio deve mantenere una <<dignità>> che secondo Diderot è tipica della specie umana.
Come già notavano gli stessi emozionalisti, l’attore è limitato dalla propria personalità ed esperienza e quindi non può interpretare qualsiasi sentimento, sarebbe un attore <<inetto>> se recitasse unicamente i suoi reali sentimenti.

Rispetto alle teorie che lo precedono, col suo paradosso Diderot sostiene una totale incompatibilità tra emozione vissuta e tecnica della recitazione. Gli emozionalisti, al contrario, avevano sostenuto una complementarità delle due cose. Su questo argomento si accende il dibattito nel corso del XIX secolo.

Il Romanticismo promuove la trasformazione del personaggio da tipo ideale a figura umana particolare e unica. Dall’Inghilterra, alla Germania, all’Italia e poi anche alla Francia, si impone il modello drammaturgico di W. Shakespeare poiché, come scrive August Wilhelm Schlegel nelle sue Lezioni sull’arte drammatica (1808), Shakespeare <<caratterizza i personaggi con una profondità e una precisione che non permette di classificarli con denominazioni generali>>.
L’attenzione romantica per il dettaglio storico e ambientale influenza la scena ottocentesca, rendendo molto accurati gli arredi e ricca di sfumature la recitazione, che deve differenziarsi a seconda della provenienza, della classe sociale e dell’esperienza proprie del singolo personaggio. Nasce un nuovo stile: il naturalismo.

Già alla fine del Settecento, la recitazione emozionalista veniva considerata più adatta alla rappresentazione di personaggi “generali”, mentre per i personaggi “particolari” era preferita la recitazione antiemozionalista. Su questo argomento si confrontarono due attrici del tempo, Hyppolite Clairon e Marie Francois Dusmenil, entrambe molto apprezzate, che, pur esprimendo reciproca stima, sostenevano posizioni opposte.

Hyppolite Clairon
Clairon, attrice antiemozionalista, scrive nelle sue Memorie (1799): <<Quale studio non bisogna compiere innanzitutto […] per arrivare a dipingere l’amore, l’odio, l’ambizione, tutti i sentimenti di cui l’umo è suscettibile; e tutte le gradazioni per cui questi diversi sentimenti arrivano alla loro maggiore espressione?>>
Parlando di due personaggi differenti quali Didone e Arianna, spiega che <<Didone è vedova e regina assoluta; la sua esperienza e l’abitudine al comando conferiscono sicurezza al suo sguardo, imponenza alla voce, collera nei suoi rimproveri. Arianna, ragazza fuggitiva, supplice, deve abbassare lo sguardo dicendo “vi amo”; i suoi rimproveri sono espressi con una voce dolce e timorosa; è necessario che il pudore abbia l’aria di frenare continuamente gli scoppi della sua disperazione.>> Secondo Clairon, senza studio, senza arte, non è possibile riuscire a esprimere le <<sfumature>> di un personaggio.

Dusmenil, attrice emozionalista, nello stesso anno risponde alla collega scrivendo a sua volta nelle proprie Memorie che le <<grandi passioni dell’anima sono le stesse da un polo all’altro. […] Penetrarsi di queste grandi passioni, provarle al momento e a volontà, dimenticare sé stessi in un batter d’occhio per mettersi al posto del personaggio che si vuole rappresentare, è esclusivamente un dono della natura, al di sopra di tutti gli sforzi dell’arte.>>

La poetica scenica del naturalismo, con la sua attenzione alla ricostruzione storica, al dettaglio ambientale, all’interazione tra gli attori, all’utilizzo di oggetti in modo realistico, alle intonazioni, ai gesti simili a quelli dell’uomo comune, alle differenti personalità dei personaggi, pone l’accento sulla necessità di una analisi e di una resa quasi scientifiche dell’interpretazione, ma allo stesso tempo e proprio per questa minuziosità, non può aggirare completamente la questione della partecipazione emotiva, che permette all’attore di configurare e di rendere vitale la psicologia del personaggio.

Constant Coquelin, celebre attore della Comedie-Francaise, nel suo saggio L’art et le comèdien, del 1880, e in altri scritti successivi apparsi su “Harper’s Monthly”, riprende le tesi di Diderot, ma lo fa ritraendo una fino ad allora inedita figura dell’attore. 

Constant Coquelin
Coquelin rivendica la dignità civile dell’attore che ha diritto di <<occupare un posto nello stato, allo stesso titolo di tutti gli altri cittadini>> e la sua dignità d’artista. Il lavoro dell’attore è un lavoro creativo. È vero che interpreta personaggi inventati da altri, ma questo non è diverso da quanto fa il pittore quando ritrae un volto che non è di sua invenzione. La differenza sta nel fatto che l’attore non dispone di un modello da tenere sotto gli occhi e soprattutto nel fatto che l’attore non utilizza materiali esterni a sé.
<<Il poeta ha per materia le parole; lo scultore il marmo o il bronzo; il pittore i colori e la tela; il musicista i suoni: la materia dell’attore è lui stesso. Per realizzare un pensiero, un’immagine, un ritratto dell’uomo, è su di sé che opera! È egli stesso la sua tastiera, e suona le proprie corde, si plasma come una creta, si scolpisce, si dipinge!>>
Proprio perché utilizza sé stesso come materia, l’attore deve rimanere distaccato dal personaggio, così come il pittore resta distaccato dalla tela.
Coquelin, come Diderot, concepisce il personaggio come “tipo” piuttosto che come “individuo”. L’attore deve rappresentare delle caratteristiche <<essenziali>>, mettere in un corpo <<l’anima>> del personaggio creato dall’autore e <<bisogna che questo corpo ne sia l’espressione compiuta e viva, che abbia le proprie maniere di andare, di venire, di entrare, di uscire, di sedersi, di ridere, di piangere, di respirare, di parlare, di tacere, e che tutte queste maniere di essere, di agire e di soffrire si connettano e costituiscano un’individualità reale, evidente, incontrata e riconosciuta, trattata con confidenza; e questa pelle di cui il personaggio ha bisogno, è l’attore che gliela dà.>>
Questa individualità reale emerge grazie ad un processo di interiorizzazione del personaggio.
<<L’attore deve prima di tutto essere penetrato dall’essenza del suo personaggio, deve inghiottirlo e digerirlo. E quando lo ha assimilato, l’esteriorità seguirà da sé del tutto naturalmente>>.
Mentre descrive la recitazione antiemozionalista, Coquelin di fatto si allontana dal modello di Diderot da cui avevo preso le mosse.

Le tesi di Coquelin suscitano una vivace polemica. Il “Longman’s Magazine”, tra il 1887 e il 1888, incarica William Archer di redigere un questionario e di sottoporlo ad un ampio numero di attori.
Archer si propone di identificare la presenza oggettiva dei sintomi della recitazione emotiva formulando domande il più possibile precise e concrete: sulla comparsa delle lacrime in scena o la rottura della voce per la commozione (sono spontanee o controllate a comando?), o riguardo la difficoltà nell’interpretare ruoli caratterialmente affini o completamente diversi da sé, o a proposito dei modi per riprodurre gli stati d’animo (ricorso a memorie personali o imitazione?), riguardo alle repliche (<<consumano>> o migliorano l’interpretazione?), ai sentimenti personali verso i partner di scena (antipatia e simpatia influenzano il rapporto sulla scena?), all’ispirazione che nasce direttamente sulla scena (si agiscono parole e gesti improvvisati al momento oppure no?).
Lo scopo del questionario di Archer è cercare di comprendere se la partecipazione emotiva è utile o dannosa all’interpretazione. Aggregando i dati raccolti col questionario, osserva che la recitazione è un’arte imitativa di modi e passioni e sono soprattutto le passioni che più ci interessano, <<è la riproduzione della passione il compito più alto ed essenziale dell’attore>>. Tali passioni possono essere riprodotte attraverso i <<sintomi>> che le caratterizzano. Vi sono sintomi che possono essere resi attraverso azioni volontarie ed altri che richiedono la partecipazione emotiva; poiché però i sintomi <<involontari>> sono meno percepibili sulla scena, Archer conclude che <<per il fine pratico della rappresentazione drammatica, i sintomi della passione possono essere imitati meccanicamente con una tollerabile precisione>>. Tuttavia, il personaggio descritto dall’autore influenza l’attore (un po’come diceva Platone): le sue emozioni si attivano durante la recitazione, anche se in forma attenuata rispetto a quelle che proverebbe se fossero reali e questo ne permette il controllo (riprende qui l’argomento della doppia coscienza dell’attore). Risultato è <<la sottile e assoluta verità imitativa che è possibile all’attore che unisce la sensibilità artisticamente controllata ai più perfetti strumenti fisici d’espressione>>.

Qualche anno prima del questionario di Archer, il critico inglese George Lewes aveva pubblicato On Actors and the Art of Acting, in cui esprime perplessità relativamente a quella che definisce una contraddizione: <<L’attore perde tutto il proprio potere sulla sua arte per l’influenza importuna dell’emozione, ma lo perde anche, nello stesso modo, in maniera direttamente proporzionale alla sua insensibilità all’emozione. Se sente realmente, non può recitare, ma può recitare solo se sente>>. Per Lewes, ciò che importa non è tanto che l’emozione venga provata, ma adeguatamente espressa; l’emotività può interferire dannosamente ai fini della rappresentazione drammatica, però è utile alla <<radice>> del processo creativo, durante la fase di studio del ruolo, per riportare alla memoria emozioni del passato o cogliere affinità con situazioni note, successivamente questa esperienza personale va mediata, attenuata e controllata.
Gli attori che non utilizzano questa risorsa recitano in modo convenzionale, rifacendosi a modelli tradizionali, mentre gli attori che recitano con <<simpatia>> arrivano a essere la parte che interpretano.
Scrive Lewes a proposito dell’attore Macready: <<Tutte le volte che doveva rendere un’emozione, la rendeva con simpatia, e non artificialmente; col che intendo che si sentiva lui stesso il personaggio, ed essendosi identificato con il personaggio, cercava mediante i simboli della sua arte di esprimere ciò che questi sentiva; non restava fuori del personaggio tentando di esprimerne le emozioni con i simboli che erano stati impiegati da altri attori per altri personaggi>>.

La partecipazione emotiva è dunque parte del processo creativo, parte del lavoro dell’attore e si comincia ad analizzare il modo in cui questa attitudine si trasforma in uno strumento interpretativo.

Tommaso Salvini
Anche Tommaso Salvini, considerato il massimo attore tragico del suo tempo, interviene nel dibattito. Nel 1890 pubblica un articolo su “The Century Magazine”. L’articolo, Some Views on Acting, poi edito anche in Italiano l’anno successivo (Una questione di arte drammatica, in “Illustrazione italiana”), affronta il tema della partecipazione emotiva inquadrandola come un approccio complesso, che coinvolge l’attore non solo intellettualmente ma nella sua totalità. Scrive Salvini: << Quanto ai mezzi coi quali io ora conseguo questo scopo non potrei spiegarmi in modo da essere chiaramente inteso dai lettori, perché io stesso non me ne rendo conto. Forse, a questo punto viene in nostro aiuto ciò che usiamo chiamare ispirazione, la quale riesce ad innalzare l’artista al di sopra del mestierante>>.
Attraverso l’ispirazione, l’attore coglie l’<<intima natura>> del personaggio, <<la differenza mentale e spirituale del carattere>>, ragiona con la sua mente, sente i suoi sentimenti e poi, solo come conseguenza di questo processo, esprime le caratteristiche esteriori, come cammina, come parla, la sua <<apparenza corporea>>. È un processo che continua sulla scena, dove la presenza degli spettatori aiuta il <<perfezionamento interiore>>. Le repliche dunque non consumano l’intensità dell’interpretazione, attraverso di esse il lavoro di creazione del personaggio prosegue.
Per Salvini controllo razionale e partecipazione della totale personalità dell’attore non si escludono a vicenda.

L’evoluzione della sensibilità teatrale nel XIX secolo porta ad individuare alcuni principi dell’arte della recitazione: la creazione di un personaggio come di una individualità complessa e unica; la partecipazione totale della personalità dell’attore nell’interpretazione; l’assimilazione del personaggio, che avviene attraverso le affinità con la personalità dell’attore; l’atteggiamento esteriore, il comportamento del personaggio sono espressione dell’interiorità individuale; l’infinità del processo interpretativo.
Questi principi sono i temi principali del dibattito teatrale del XX secolo.








Bibliografia:

C. Vicentini, “Teorie della recitazione. Diderot e la questione del paradosso”, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, 2000, Einaudi, Torino




venerdì 1 luglio 2016

La questione della partecipazione emotiva dell’attore nei secoli XVIII e XIX. Prima parte – Riccoboni, Sainte-Albine, Lessing.


David Garrick in una scena di Enrico III,
ritratto da William Hogarth

Nella concezione estetica dell’antica Grecia, la parola poetica scaturisce direttamente dalla divinità e il poeta ne viene invasato. Questa possessione, secondo Platone, contagia gli attori e poi gli ascoltatori creando <<una catena di invasi dalla divina ispirazione>>.
Secondo Aristotele, i poeti drammatici che si esprimono con efficacia sono coloro <<che vivono di volta in volta le passioni che vogliono rappresentare>>. La partecipazione emotiva è dunque elemento imprescindibile dall’interpretazione, che interessa tanto il teatro quanto l’arte oratoria.

Il tema della partecipazione emotiva riaffiora frequentemente nei secoli seguenti, ma, nel corso del XVIII secolo, viene affrontato per la prima volta come un problema tecnico da analizzare nel suo rapporto con le componenti razionali e consapevoli della recitazione. Come interagiscono sensibilità e ragione nell’esperienza artistica? Attori e teorici cercarono di rispondere a questo interrogativo.

Tra Seicento e Settecento si anima il contrasto tra i sostenitori della recitazione semplice e naturale e quella, allora dominante, esagerata e artificiale, contrasto iniziato nel corso del Seicento sui palcoscenici parigini. Gli attori Baron (allievo di Molière) e Adrienne Lecrouveur erano esponenti dello stile semplice, mentre Bellerose e Montfleury e poi Beaubourg e Mademoiselle Duclos erano esponenti dello stile magniloquente.

Entrambi gli stili apparirebbero allo sguardo contemporaneo piuttosto convenzionali, perché si supponeva che la rappresentazione scenica dovesse sempre esprimere immagini ideali, gradevoli ed esemplari; inoltre le scenografie, i costumi e la versificazione tendevano a ripetere schemi simili. Tuttavia, i due stili erano in effetti differenti tra loro, soprattutto per il trattamento del testo.

L’attore della scuola artificiale usava esaltare alcune caratteristiche personali e mantenere un unico tipo di interpretazione nelle diverse rappresentazioni. Bellerose si distingueva per l’eleganza dei modi, al punto che i suoi critici dicevano di lui che dava l’idea di cercare il modo di appoggiare il cappello in scena senza sciuparne le piume, Montfleury risultava particolarmente pomposo e di Beabourg si diceva che urlasse freneticamente.
Li accomunava la declamazione dei versi che privilegiava l’effetto sonoro, musicale delle parole, mentre le pause erano utilizzate soprattutto per enfatizzare frasi ad effetto. In chiusura, si usava elevare il tono per suscitare l’appaluso del pubblico.

Adrienne Lecrouveur,
ritratta da Nicolas Colombel
Lo stile semplice poneva invece attenzione ai contenuti del testo, concepiva variazioni di toni e pause solo in accordo col senso delle frasi e richiedeva che le parole venissero pronunciate in maniera che il senso fosse comprensibile. Baron non declamava mai, non accentuava il ritmo del verso e spesso il tono della recitazione era come quello della normale conversazione. Gli oppositori dello stile semplice ne criticavano proprio la quotidianità, il tono “troppo basso”, privo della adeguata solennità.
Il nuovo stile si stava però diffondendo. L’attore inglese David Garrick nella seconda metà del Settecento ne incarna il modello. Garrick era molto versatile e interpretava diversi personaggi con atteggiamenti, toni e gesti di volta in volta differenti: adattava la sua interpretazione al personaggio e non tutti i personaggi ad un modello interpretativo fisso. Si esprimeva con naturalezza mostrando i sentimenti del personaggio e usava la mimica e il comportamento non solo quando aveva la parola, ma anche mentre erano gli altri attori ad avere la battuta, mostrando una reazione pertinente.  Agiva inoltre tenendo conto della situazione: come osservò Macklin, Romeo non entrerebbe nel giardino dei Capuleti declamando a gran voce, rischiando di essere scoperto e magari di ingaggiare un duello con qualcuno dei suoi nemici, ma si avvicinerebbe furtivamente al balcone di Giulietta e plausibilmente la corteggerebbe sussurrando.
Nell’insieme, tutto questo è rivoluzionario per l’epoca.

Oltre che attraverso il lavoro degli attori, il dibattito sugli stili viene affrontato anche attraverso la scrittura di saggi teorici.
Nel suo trattato Dell’arte rappresentativa, pubblicato a Londra nel 1728, Luigi Riccoboni, prima attore e capocomico e successivamente teorico e storico del teatro, sostiene la recitazione naturale, che ritiene più efficace rispetto alla magniloquenza dello stile opposto.

Va detto che uno stile non si sostituisce completamente all’altro, entrambi vengono praticati, anche se da compagnie diverse e gran parte del pubblico continua ad apprezzare lo stile declamatorio.
È utile anche una precisazione rispetto a quello che si intende nel Settecento per recitazione naturale. Riccoboni fa notare, nel suo trattato, che spesso nella vita reale il fango e l’oro sono mescolati; l’opera teatrale non deve, a suo avviso, rispecchiare la realtà fino a questo punto, deve piuttosto mostrare una natura bella, esemplare. Per esempio, un principe, secondo la visione estetica di Riccoboni, deve manifestare atteggiamenti sempre dignitosi, consoni al proprio rango, evitando cadute di stile, fragilità o immoralità.

Michel Baron,
ritratto da Francois Courboin
A parte questa idealizzazione etica, Riccoboni riteneva che le situazioni e i caratteri dovessero essere rappresentati con concretezza, seppur nel contesto della finzione scenica.
L’attore doveva essere <<proteiforme>>, in grado di ricoprire ruoli diversi, esprimendosi con voce e comportamenti commisurati all’azione e non doveva mai trascurare la mimica del viso, doveva evitare la dizione cantilenante e doveva prestare attenzione all’interlocutore, senza badare al pubblico. Per fare questo, non poteva, secondo Riccoboni, cercare stimoli esteriori, ma lasciar nascere interiormente i sentimenti che avrebbero dato vita alla rappresentazione del personaggio. La partecipazione emotiva era indispensabile, quindi, alla naturalezza della recitazione.
Scrive Riccoboni: <<Senti il timore, e l’occhio tuo dimesso l’esprimerà; e senti un gran furore, e l’ardire vedrassi in loro impresso.>>
Non gli sfuggì l’obiezione più ricorrente (anche ai nostri giorni) in fatto di recitazione partecipata emotivamente: se un attore deve interpretare qualcosa che non ha mai provato o che percepisce molto lontana da sé, come fa a provare dei sentimenti autentici?
Riccoboni, per così dire, si arrende di fronte a questo problema, sostenendo che in tal caso all’attore è concesso di ricorrere all’imitazione <<e sia fittizio il Ver, s’altro non puoi.>>
Riteneva tuttavia che l’imitazione esponesse l’attore ai rischi dell’esagerazione, come quello di stordire con voce tonante gli spettatori vicini per farsi udire anche da quelli lontani; senza il sentimento, trovare la giusta misura risultava più difficile.

Anche Rèmond de Sainte-Albine, autore del trattato Le comèdien (1747), sposa la teoria emozionalista.
Sainte-Albine descrive nel suo trattato le caratteristiche dell’attore, un insieme coordinato di doti naturali e tecniche acquisite.
Le doti naturali includono i tratti fisici e altri tratti interiori quali: la capacità di comprendere il testo di un’opera teatrale e di individuarne le potenzialità della resa scenica; quello che Sainte-Albine chiama l’esprit, cioè la capacità di comprendere di quale stoffa sia fatto il personaggio, evitando di incorrere in contraddizioni, il sentimento, la capacità di provare le emozioni nella situazione in cui si sta agendo, perché il semplice ricordo non sarebbe sufficiente; il feu, l’energia vivificante che, seguendo un paragone dello stesso Sainte-Albine, sta al sentimento come il movimento dell’aria alla fiamma.
La tecnica costituisce quelli che Sainte-Albine definisce gli aiuti: si tratta della capacità di interpretare il personaggio valutandone il carattere, l’età, la condizione sociale, l’appartenenza ad una certa epoca storica e ad un certo paese, dosandone l’intensità delle passioni a seconda delle scene dell’opera.

Anche in questo caso, la somiglianza con la realtà storica, sociale, caratteriale non va intesa in modo del tutto realistico, la somiglianza ci deve essere, ma <<in bello>>. L’opera teatrale deve rimanere, anche per Sainte-Albine, una immagine ideale.
Vi sono poi le esigenze tipiche della rappresentazione teatrale, come la necessità di farsi udire e vedere in tutta la sala, che rende l’espressività più marcata rispetto alla quotidianità. Sainte-Albine precisa, però, che gli eccessi vanno comunque evitati.
Riguardo al problema della partecipazione emotiva in situazioni mai esperite, Sainte-Albine afferma che l’attore, <<molle cera>> plasmabile a qualunque stato emotivo, deve essere in grado di trovare in sé ogni sentimento.  Corregge in seguito la sua posizione, aggiungendo che ogni attore riesce meglio nei ruoli che più gli somigliano e che quindi bisogna scegliere gli attori <<non solo per ogni diverso genere di opere, ma anche per ogni specie particolare di ruoli.>>

Sainte-Albine introduce un’altra questione oggetto di discussione anche successiva: la mobilità della recitazione, cioè la sua variabilità, non solo in parti differenti, ma anche nell’interpretazione della stessa parte. <<Quando un attore ha del feu è ben penetrato nella sua situazione. […] Benché sia obbligato, recitando la stessa parte, ad apparire la stessa persona, trova il modo di apparire sempre nuovo.>> e questo perché il sentimento non si manifesta ogni volta in modo identico.

Il figlio di Luigi Riccoboni, François, nel 1750 pubblica L’art du theatre, in cui espone una teoria esplicitamente antiemozionalista.
Anche François Riccoboni sostiene la recitazione semplice e naturale, la coerenza del comportamento dell’attore con il contenuto della battuta, con la situazione e il carattere del personaggio, ma afferma che per rendere la recitazione efficace, è necessario che l’attore non provi realmente i sentimenti che sta interpretando, perché altrimenti rischierebbe di esserne sopraffatto, e, per esempio, di non riuscire a pronunciare parola durante un momento di vera commozione. La estrema sintesi dell’opera teatrale, inoltre, richiede che diversi sentimenti si succedano piuttosto rapidamente, con un ritmo innaturale col quale i reali sentimenti dell’attore non potrebbero stare al passo. È piuttosto questo stesso ritmo a dare un senso di “calore” che, unitamente alle capacità imitative dell’attore, conferisce all’opera un’illusione di realtà.

La teoria antiemozionalista trova un altro sostenitore in Gotthold Ephraim Lessing, scrittore, filosofo e drammaturgo tedesco, che critica il trattato di Sainte-Albine. Inizialmente Lessing traduce Le comedien in tedesco, ma poi ne pubblica solo un riassunto, motivando la scelta con due ragioni: la prima è che le opere francesi cui Saint-Albine faceva riferimento non erano state rappresentate in Germania e quindi gran parte delle osservazioni presenti nel trattato sarebbero risultate incomprensibili al lettore tedesco, la seconda è che giudicava errata la visione del teatro di Sainte-Albine.
Secondo Sainte-Albine, <<le modifiche esteriori del corpo sono conseguenza naturale della essenza interiore dell’anima>> e Lessing concordava, ma precisando che questo è quanto accade normalmente nella vita quotidiana. Questo implica una resa <<imperfetta>> del sentimento, che, al contrario, a teatro va rappresentato <<nella maniera migliore>>. L’attore deve riprodurre i comportamenti reali ma <<in modo generale>>, in una forma paradigmatica nella quale il pubblico possa in parte riconoscersi. Aggiunge inoltre Lessing che, nell’imitazione dei gesti e dei toni esemplificativi di determinate situazioni, l’attore dispone di conseguenza il proprio stato d’animo, rovesciando la prospettiva di Sainte-Albine: non dal sentimento scaturisce l’azione, ma dall’azione il sentimento.
Fine prima parte

Bibliografia:

C. Vicentini, "Teorie della recitazione. Diderot e la questione del paradosso", in Storia del teatro moderno e contemporaneo, 2000, Einaudi, Torino