Marie Francois Dusmenil |
Il filosofo Denis Diderot attacca la teoria
emozionalista e scrive in proposito un saggio diventato celebre: Paradoxe sur le comédien, Paradosso
sull’attore.
Scritto in forma di dialogo, viene inizialmente divulgato
come manoscritto. La prima stesura è del 1773 ma viene dato alle stampe solo
nel 1830.
Secondo la teoria del paradosso, l’attore può rappresentare
efficacemente i sentimenti richiesti dalla parte solo se non li prova
realmente.
L’argomentazione di Diderot riguarda due temi
principali: la sensibilità dell’attore e la differenza tra esperienza reale e
teatrale.
Secondo Diderot, per provare i sentimenti propri del
suo ruolo, l’attore deve avere una sensibilità
particolarmente acuta, <<una disposizione, compagna della debolezza
dell’organismo, effetto della mobilità del diaframma, della vivacità
dell’immaginazione, della delicatezza dei nervi>> una disposizione che
conduce <<a non aver alcuna idea precisa del vero, del buono e del bello,
a essere ingiusti, a essere folli>>.
La recitazione basata sulla sensibilità è dunque incontrollabile
e soggetta all’instabilità delle emozioni: l’attore potrebbe trovarsi nel
corretto stato emotivo in un determinato momento ma non più nella scena
successiva e quindi risultare poco espressivo, e gli sarebbe estremamente
difficile compiere il passaggio da un’emozione all’altra nell’avvicendamento
dell’intreccio, perdendo così <<la coerenza dell’insieme>>. L’emozione
inoltre potrebbe facilmente <<consumarsi>> di replica in replica,
poiché il coinvolgimento diminuisce con la ripetizione.
Diderot aggiunge che l’attore, a maggior ragione se
dotato di una profonda emotività, non può evitare di essere condizionato dai
sentimenti privati, che lo allontanano dallo stato emotivo consono alla sua
interpretazione, compromettendo così i suoi requisiti fondamentali: controllo,
stabilità, ripetibilità.
Per quanto riguarda la discrepanza tra realtà e
rappresentazione teatrale, riprendendo Lessing, Diderot sostiene che la
manifestazione reale delle situazioni
e delle reazioni emotive risulta inadeguata sulla scena, in parte per via delle
caratteristiche dello spazio teatrale (che richiede all’attore gesti e voce più
“forti”) e in parte perché il teatro non deve rappresentare individui reali, ma tipi ideali. Entrambi sembrerebbero ridicoli gli uni al posto degli
altri. L’esemplarità del personaggio richiede inoltre che l’attore eviti
<<smorfie>> realistiche come succede quando proviamo un grande
dolore; il personaggio deve mantenere una <<dignità>> che secondo
Diderot è tipica della specie umana.
Come già notavano gli stessi emozionalisti, l’attore
è limitato dalla propria personalità ed esperienza e quindi non può interpretare
qualsiasi sentimento, sarebbe un attore <<inetto>> se recitasse
unicamente i suoi reali sentimenti.
Rispetto alle teorie che lo precedono, col suo
paradosso Diderot sostiene una totale incompatibilità tra emozione vissuta e
tecnica della recitazione. Gli emozionalisti, al contrario, avevano sostenuto
una complementarità delle due cose. Su questo argomento si accende il dibattito
nel corso del XIX secolo.
Il Romanticismo promuove la trasformazione del
personaggio da tipo ideale a figura umana particolare e unica.
Dall’Inghilterra, alla Germania, all’Italia e poi anche alla Francia, si impone
il modello drammaturgico di W. Shakespeare poiché, come scrive August Wilhelm
Schlegel nelle sue Lezioni sull’arte
drammatica (1808), Shakespeare <<caratterizza i personaggi con una
profondità e una precisione che non permette di classificarli con denominazioni
generali>>.
L’attenzione romantica per il dettaglio storico e
ambientale influenza la scena ottocentesca, rendendo molto accurati gli arredi e
ricca di sfumature la recitazione, che deve differenziarsi a seconda della provenienza,
della classe sociale e dell’esperienza proprie del singolo personaggio. Nasce
un nuovo stile: il naturalismo.
Già alla fine del Settecento, la recitazione
emozionalista veniva considerata più adatta alla rappresentazione di personaggi
“generali”, mentre per i personaggi “particolari” era preferita la recitazione
antiemozionalista. Su questo argomento si confrontarono due attrici del tempo, Hyppolite
Clairon e Marie Francois Dusmenil, entrambe molto apprezzate, che, pur
esprimendo reciproca stima, sostenevano posizioni opposte.
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Hyppolite Clairon |
Clairon, attrice antiemozionalista, scrive nelle sue Memorie (1799): <<Quale studio non
bisogna compiere innanzitutto […] per arrivare a dipingere l’amore, l’odio,
l’ambizione, tutti i sentimenti di cui l’umo è suscettibile; e tutte le
gradazioni per cui questi diversi sentimenti arrivano alla loro maggiore
espressione?>>
Parlando di due personaggi differenti quali Didone e
Arianna, spiega che <<Didone è vedova e regina assoluta; la sua
esperienza e l’abitudine al comando conferiscono sicurezza al suo sguardo,
imponenza alla voce, collera nei suoi rimproveri. Arianna, ragazza fuggitiva,
supplice, deve abbassare lo sguardo dicendo “vi amo”; i suoi rimproveri sono
espressi con una voce dolce e timorosa; è necessario che il pudore abbia l’aria
di frenare continuamente gli scoppi della sua disperazione.>> Secondo
Clairon, senza studio, senza arte,
non è possibile riuscire a esprimere le <<sfumature>> di un
personaggio.
Dusmenil, attrice emozionalista, nello stesso anno
risponde alla collega scrivendo a sua volta nelle proprie Memorie che le <<grandi passioni dell’anima sono le stesse da
un polo all’altro. […] Penetrarsi di queste grandi passioni, provarle al
momento e a volontà, dimenticare sé stessi in un batter d’occhio per mettersi
al posto del personaggio che si vuole rappresentare, è esclusivamente un dono
della natura, al di sopra di tutti gli sforzi dell’arte.>>
La poetica scenica del naturalismo, con la sua
attenzione alla ricostruzione storica, al dettaglio ambientale, all’interazione
tra gli attori, all’utilizzo di oggetti in modo realistico, alle intonazioni,
ai gesti simili a quelli dell’uomo comune, alle differenti personalità dei
personaggi, pone l’accento sulla necessità di una analisi e di una resa quasi scientifiche dell’interpretazione, ma
allo stesso tempo e proprio per questa minuziosità, non può aggirare completamente
la questione della partecipazione emotiva, che permette all’attore di configurare
e di rendere vitale la psicologia del personaggio.
Constant Coquelin, celebre attore della
Comedie-Francaise, nel suo saggio L’art
et le comèdien, del 1880, e in altri scritti successivi apparsi su
“Harper’s Monthly”, riprende le tesi di Diderot, ma lo fa ritraendo una fino ad
allora inedita figura dell’attore.
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Constant Coquelin |
Coquelin rivendica la dignità civile dell’attore che
ha diritto di <<occupare un posto nello stato, allo stesso titolo di
tutti gli altri cittadini>> e la sua dignità d’artista. Il lavoro dell’attore è un lavoro creativo. È vero che interpreta personaggi inventati da altri, ma
questo non è diverso da quanto fa il pittore quando ritrae un volto che non è
di sua invenzione. La differenza sta nel fatto che l’attore non dispone di un
modello da tenere sotto gli occhi e soprattutto nel fatto che l’attore non utilizza
materiali esterni a sé.
<<Il poeta ha per materia le parole; lo
scultore il marmo o il bronzo; il pittore i colori e la tela; il musicista i
suoni: la materia dell’attore è lui stesso. Per realizzare un pensiero,
un’immagine, un ritratto dell’uomo, è su di sé che opera! È egli stesso la sua
tastiera, e suona le proprie corde, si plasma come una creta, si scolpisce, si
dipinge!>>
Proprio perché utilizza sé stesso come materia,
l’attore deve rimanere distaccato dal personaggio, così come il pittore resta distaccato
dalla tela.
Coquelin, come Diderot, concepisce il personaggio
come “tipo” piuttosto che come “individuo”. L’attore deve rappresentare delle
caratteristiche <<essenziali>>, mettere in un corpo
<<l’anima>> del personaggio creato dall’autore e <<bisogna
che questo corpo ne sia l’espressione compiuta e viva, che abbia le proprie
maniere di andare, di venire, di entrare, di uscire, di sedersi, di ridere, di
piangere, di respirare, di parlare, di tacere, e che tutte queste maniere di
essere, di agire e di soffrire si connettano e costituiscano un’individualità
reale, evidente, incontrata e riconosciuta, trattata con confidenza; e questa
pelle di cui il personaggio ha bisogno, è l’attore che gliela dà.>>
Questa individualità reale emerge grazie ad un processo
di interiorizzazione del personaggio.
<<L’attore deve prima di tutto essere penetrato
dall’essenza del suo personaggio, deve inghiottirlo e digerirlo. E quando lo ha
assimilato, l’esteriorità seguirà da sé del tutto naturalmente>>.
Mentre descrive la recitazione antiemozionalista,
Coquelin di fatto si allontana dal modello di Diderot da cui avevo preso le
mosse.
Le tesi di Coquelin suscitano una vivace polemica. Il
“Longman’s Magazine”, tra il 1887 e il 1888, incarica William Archer di
redigere un questionario e di sottoporlo ad un ampio numero di attori.
Archer si propone di identificare la presenza oggettiva dei sintomi della recitazione
emotiva formulando domande il più possibile precise e concrete: sulla comparsa
delle lacrime in scena o la rottura della voce per la commozione (sono spontanee
o controllate a comando?), o riguardo la difficoltà nell’interpretare ruoli
caratterialmente affini o completamente diversi da sé, o a proposito dei modi
per riprodurre gli stati d’animo (ricorso a memorie personali o imitazione?), riguardo
alle repliche (<<consumano>> o migliorano l’interpretazione?), ai
sentimenti personali verso i partner di scena (antipatia e simpatia influenzano
il rapporto sulla scena?), all’ispirazione che nasce direttamente sulla scena
(si agiscono parole e gesti improvvisati al momento oppure no?).
Lo scopo del questionario di Archer è cercare di comprendere
se la partecipazione emotiva è utile o dannosa all’interpretazione. Aggregando
i dati raccolti col questionario, osserva che la recitazione è un’arte
imitativa di modi e passioni e sono soprattutto le passioni che più ci
interessano, <<è la riproduzione della passione il compito più alto ed
essenziale dell’attore>>. Tali passioni possono essere riprodotte attraverso
i <<sintomi>> che le caratterizzano. Vi sono sintomi che possono
essere resi attraverso azioni volontarie ed altri che richiedono la
partecipazione emotiva; poiché però i sintomi <<involontari>> sono
meno percepibili sulla scena, Archer conclude che <<per il fine pratico
della rappresentazione drammatica, i sintomi della passione possono essere imitati
meccanicamente con una tollerabile precisione>>. Tuttavia, il personaggio
descritto dall’autore influenza l’attore (un po’come diceva Platone): le sue
emozioni si attivano durante la recitazione, anche se in forma attenuata
rispetto a quelle che proverebbe se fossero reali e questo ne permette il
controllo (riprende qui l’argomento della doppia
coscienza dell’attore). Risultato è <<la sottile e assoluta verità
imitativa che è possibile all’attore che unisce la sensibilità artisticamente
controllata ai più perfetti strumenti fisici d’espressione>>.
Qualche anno prima del questionario di Archer, il
critico inglese George Lewes aveva pubblicato On Actors and the Art of Acting, in cui esprime perplessità
relativamente a quella che definisce una contraddizione: <<L’attore perde
tutto il proprio potere sulla sua arte per l’influenza importuna dell’emozione,
ma lo perde anche, nello stesso modo, in maniera direttamente proporzionale
alla sua insensibilità all’emozione. Se sente realmente, non può recitare, ma
può recitare solo se sente>>. Per Lewes, ciò che importa non è tanto che
l’emozione venga provata, ma adeguatamente espressa; l’emotività può interferire
dannosamente ai fini della rappresentazione drammatica, però è utile alla
<<radice>> del processo creativo, durante la fase di studio del
ruolo, per riportare alla memoria emozioni del passato o cogliere affinità con
situazioni note, successivamente questa esperienza personale va mediata,
attenuata e controllata.
Gli attori che non utilizzano questa risorsa recitano
in modo convenzionale, rifacendosi a modelli tradizionali, mentre gli attori
che recitano con <<simpatia>> arrivano a essere la parte che interpretano.
Scrive Lewes a proposito dell’attore Macready:
<<Tutte le volte che doveva rendere un’emozione, la rendeva con simpatia,
e non artificialmente; col che intendo che si sentiva lui stesso il personaggio,
ed essendosi identificato con il personaggio, cercava mediante i simboli della
sua arte di esprimere ciò che questi sentiva; non restava fuori del personaggio
tentando di esprimerne le emozioni con i simboli che erano stati impiegati da
altri attori per altri personaggi>>.
La partecipazione emotiva è dunque parte del processo
creativo, parte del lavoro dell’attore e si comincia ad analizzare il modo in
cui questa attitudine si trasforma in uno strumento interpretativo.
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Tommaso Salvini |
Anche Tommaso Salvini, considerato il massimo attore
tragico del suo tempo, interviene nel dibattito. Nel 1890 pubblica un articolo
su “The Century Magazine”. L’articolo, Some
Views on Acting, poi edito anche in Italiano l’anno successivo (Una questione di arte drammatica, in “Illustrazione
italiana”), affronta il tema della partecipazione emotiva inquadrandola come un
approccio complesso, che coinvolge l’attore non solo intellettualmente ma nella
sua totalità. Scrive Salvini: << Quanto ai mezzi coi quali io ora
conseguo questo scopo non potrei spiegarmi in modo da essere chiaramente inteso
dai lettori, perché io stesso non me ne rendo conto. Forse, a questo punto viene
in nostro aiuto ciò che usiamo chiamare ispirazione, la quale riesce ad
innalzare l’artista al di sopra del mestierante>>.
Attraverso l’ispirazione, l’attore coglie l’<<intima
natura>> del personaggio, <<la differenza mentale e spirituale del
carattere>>, ragiona con la sua mente, sente i suoi sentimenti e poi, solo
come conseguenza di questo processo, esprime le caratteristiche esteriori, come
cammina, come parla, la sua <<apparenza corporea>>. È un processo
che continua sulla scena, dove la presenza degli spettatori aiuta il <<perfezionamento
interiore>>. Le repliche dunque non consumano l’intensità dell’interpretazione,
attraverso di esse il lavoro di creazione del personaggio prosegue.
Per Salvini controllo razionale e partecipazione
della totale personalità dell’attore non si escludono a vicenda.
L’evoluzione della sensibilità teatrale nel XIX
secolo porta ad individuare alcuni principi dell’arte della recitazione: la
creazione di un personaggio come di una individualità complessa e unica; la
partecipazione totale della personalità dell’attore nell’interpretazione; l’assimilazione
del personaggio, che avviene attraverso le affinità con la personalità dell’attore;
l’atteggiamento esteriore, il comportamento del personaggio sono espressione
dell’interiorità individuale; l’infinità del processo interpretativo.
Questi principi sono i temi principali del dibattito
teatrale del XX secolo.
Bibliografia:
C. Vicentini, “Teorie della recitazione. Diderot e la
questione del paradosso”, in Storia del
teatro moderno e contemporaneo, 2000, Einaudi, Torino