venerdì 1 luglio 2016

La questione della partecipazione emotiva dell’attore nei secoli XVIII e XIX. Prima parte – Riccoboni, Sainte-Albine, Lessing.


David Garrick in una scena di Enrico III,
ritratto da William Hogarth

Nella concezione estetica dell’antica Grecia, la parola poetica scaturisce direttamente dalla divinità e il poeta ne viene invasato. Questa possessione, secondo Platone, contagia gli attori e poi gli ascoltatori creando <<una catena di invasi dalla divina ispirazione>>.
Secondo Aristotele, i poeti drammatici che si esprimono con efficacia sono coloro <<che vivono di volta in volta le passioni che vogliono rappresentare>>. La partecipazione emotiva è dunque elemento imprescindibile dall’interpretazione, che interessa tanto il teatro quanto l’arte oratoria.

Il tema della partecipazione emotiva riaffiora frequentemente nei secoli seguenti, ma, nel corso del XVIII secolo, viene affrontato per la prima volta come un problema tecnico da analizzare nel suo rapporto con le componenti razionali e consapevoli della recitazione. Come interagiscono sensibilità e ragione nell’esperienza artistica? Attori e teorici cercarono di rispondere a questo interrogativo.

Tra Seicento e Settecento si anima il contrasto tra i sostenitori della recitazione semplice e naturale e quella, allora dominante, esagerata e artificiale, contrasto iniziato nel corso del Seicento sui palcoscenici parigini. Gli attori Baron (allievo di Molière) e Adrienne Lecrouveur erano esponenti dello stile semplice, mentre Bellerose e Montfleury e poi Beaubourg e Mademoiselle Duclos erano esponenti dello stile magniloquente.

Entrambi gli stili apparirebbero allo sguardo contemporaneo piuttosto convenzionali, perché si supponeva che la rappresentazione scenica dovesse sempre esprimere immagini ideali, gradevoli ed esemplari; inoltre le scenografie, i costumi e la versificazione tendevano a ripetere schemi simili. Tuttavia, i due stili erano in effetti differenti tra loro, soprattutto per il trattamento del testo.

L’attore della scuola artificiale usava esaltare alcune caratteristiche personali e mantenere un unico tipo di interpretazione nelle diverse rappresentazioni. Bellerose si distingueva per l’eleganza dei modi, al punto che i suoi critici dicevano di lui che dava l’idea di cercare il modo di appoggiare il cappello in scena senza sciuparne le piume, Montfleury risultava particolarmente pomposo e di Beabourg si diceva che urlasse freneticamente.
Li accomunava la declamazione dei versi che privilegiava l’effetto sonoro, musicale delle parole, mentre le pause erano utilizzate soprattutto per enfatizzare frasi ad effetto. In chiusura, si usava elevare il tono per suscitare l’appaluso del pubblico.

Adrienne Lecrouveur,
ritratta da Nicolas Colombel
Lo stile semplice poneva invece attenzione ai contenuti del testo, concepiva variazioni di toni e pause solo in accordo col senso delle frasi e richiedeva che le parole venissero pronunciate in maniera che il senso fosse comprensibile. Baron non declamava mai, non accentuava il ritmo del verso e spesso il tono della recitazione era come quello della normale conversazione. Gli oppositori dello stile semplice ne criticavano proprio la quotidianità, il tono “troppo basso”, privo della adeguata solennità.
Il nuovo stile si stava però diffondendo. L’attore inglese David Garrick nella seconda metà del Settecento ne incarna il modello. Garrick era molto versatile e interpretava diversi personaggi con atteggiamenti, toni e gesti di volta in volta differenti: adattava la sua interpretazione al personaggio e non tutti i personaggi ad un modello interpretativo fisso. Si esprimeva con naturalezza mostrando i sentimenti del personaggio e usava la mimica e il comportamento non solo quando aveva la parola, ma anche mentre erano gli altri attori ad avere la battuta, mostrando una reazione pertinente.  Agiva inoltre tenendo conto della situazione: come osservò Macklin, Romeo non entrerebbe nel giardino dei Capuleti declamando a gran voce, rischiando di essere scoperto e magari di ingaggiare un duello con qualcuno dei suoi nemici, ma si avvicinerebbe furtivamente al balcone di Giulietta e plausibilmente la corteggerebbe sussurrando.
Nell’insieme, tutto questo è rivoluzionario per l’epoca.

Oltre che attraverso il lavoro degli attori, il dibattito sugli stili viene affrontato anche attraverso la scrittura di saggi teorici.
Nel suo trattato Dell’arte rappresentativa, pubblicato a Londra nel 1728, Luigi Riccoboni, prima attore e capocomico e successivamente teorico e storico del teatro, sostiene la recitazione naturale, che ritiene più efficace rispetto alla magniloquenza dello stile opposto.

Va detto che uno stile non si sostituisce completamente all’altro, entrambi vengono praticati, anche se da compagnie diverse e gran parte del pubblico continua ad apprezzare lo stile declamatorio.
È utile anche una precisazione rispetto a quello che si intende nel Settecento per recitazione naturale. Riccoboni fa notare, nel suo trattato, che spesso nella vita reale il fango e l’oro sono mescolati; l’opera teatrale non deve, a suo avviso, rispecchiare la realtà fino a questo punto, deve piuttosto mostrare una natura bella, esemplare. Per esempio, un principe, secondo la visione estetica di Riccoboni, deve manifestare atteggiamenti sempre dignitosi, consoni al proprio rango, evitando cadute di stile, fragilità o immoralità.

Michel Baron,
ritratto da Francois Courboin
A parte questa idealizzazione etica, Riccoboni riteneva che le situazioni e i caratteri dovessero essere rappresentati con concretezza, seppur nel contesto della finzione scenica.
L’attore doveva essere <<proteiforme>>, in grado di ricoprire ruoli diversi, esprimendosi con voce e comportamenti commisurati all’azione e non doveva mai trascurare la mimica del viso, doveva evitare la dizione cantilenante e doveva prestare attenzione all’interlocutore, senza badare al pubblico. Per fare questo, non poteva, secondo Riccoboni, cercare stimoli esteriori, ma lasciar nascere interiormente i sentimenti che avrebbero dato vita alla rappresentazione del personaggio. La partecipazione emotiva era indispensabile, quindi, alla naturalezza della recitazione.
Scrive Riccoboni: <<Senti il timore, e l’occhio tuo dimesso l’esprimerà; e senti un gran furore, e l’ardire vedrassi in loro impresso.>>
Non gli sfuggì l’obiezione più ricorrente (anche ai nostri giorni) in fatto di recitazione partecipata emotivamente: se un attore deve interpretare qualcosa che non ha mai provato o che percepisce molto lontana da sé, come fa a provare dei sentimenti autentici?
Riccoboni, per così dire, si arrende di fronte a questo problema, sostenendo che in tal caso all’attore è concesso di ricorrere all’imitazione <<e sia fittizio il Ver, s’altro non puoi.>>
Riteneva tuttavia che l’imitazione esponesse l’attore ai rischi dell’esagerazione, come quello di stordire con voce tonante gli spettatori vicini per farsi udire anche da quelli lontani; senza il sentimento, trovare la giusta misura risultava più difficile.

Anche Rèmond de Sainte-Albine, autore del trattato Le comèdien (1747), sposa la teoria emozionalista.
Sainte-Albine descrive nel suo trattato le caratteristiche dell’attore, un insieme coordinato di doti naturali e tecniche acquisite.
Le doti naturali includono i tratti fisici e altri tratti interiori quali: la capacità di comprendere il testo di un’opera teatrale e di individuarne le potenzialità della resa scenica; quello che Sainte-Albine chiama l’esprit, cioè la capacità di comprendere di quale stoffa sia fatto il personaggio, evitando di incorrere in contraddizioni, il sentimento, la capacità di provare le emozioni nella situazione in cui si sta agendo, perché il semplice ricordo non sarebbe sufficiente; il feu, l’energia vivificante che, seguendo un paragone dello stesso Sainte-Albine, sta al sentimento come il movimento dell’aria alla fiamma.
La tecnica costituisce quelli che Sainte-Albine definisce gli aiuti: si tratta della capacità di interpretare il personaggio valutandone il carattere, l’età, la condizione sociale, l’appartenenza ad una certa epoca storica e ad un certo paese, dosandone l’intensità delle passioni a seconda delle scene dell’opera.

Anche in questo caso, la somiglianza con la realtà storica, sociale, caratteriale non va intesa in modo del tutto realistico, la somiglianza ci deve essere, ma <<in bello>>. L’opera teatrale deve rimanere, anche per Sainte-Albine, una immagine ideale.
Vi sono poi le esigenze tipiche della rappresentazione teatrale, come la necessità di farsi udire e vedere in tutta la sala, che rende l’espressività più marcata rispetto alla quotidianità. Sainte-Albine precisa, però, che gli eccessi vanno comunque evitati.
Riguardo al problema della partecipazione emotiva in situazioni mai esperite, Sainte-Albine afferma che l’attore, <<molle cera>> plasmabile a qualunque stato emotivo, deve essere in grado di trovare in sé ogni sentimento.  Corregge in seguito la sua posizione, aggiungendo che ogni attore riesce meglio nei ruoli che più gli somigliano e che quindi bisogna scegliere gli attori <<non solo per ogni diverso genere di opere, ma anche per ogni specie particolare di ruoli.>>

Sainte-Albine introduce un’altra questione oggetto di discussione anche successiva: la mobilità della recitazione, cioè la sua variabilità, non solo in parti differenti, ma anche nell’interpretazione della stessa parte. <<Quando un attore ha del feu è ben penetrato nella sua situazione. […] Benché sia obbligato, recitando la stessa parte, ad apparire la stessa persona, trova il modo di apparire sempre nuovo.>> e questo perché il sentimento non si manifesta ogni volta in modo identico.

Il figlio di Luigi Riccoboni, François, nel 1750 pubblica L’art du theatre, in cui espone una teoria esplicitamente antiemozionalista.
Anche François Riccoboni sostiene la recitazione semplice e naturale, la coerenza del comportamento dell’attore con il contenuto della battuta, con la situazione e il carattere del personaggio, ma afferma che per rendere la recitazione efficace, è necessario che l’attore non provi realmente i sentimenti che sta interpretando, perché altrimenti rischierebbe di esserne sopraffatto, e, per esempio, di non riuscire a pronunciare parola durante un momento di vera commozione. La estrema sintesi dell’opera teatrale, inoltre, richiede che diversi sentimenti si succedano piuttosto rapidamente, con un ritmo innaturale col quale i reali sentimenti dell’attore non potrebbero stare al passo. È piuttosto questo stesso ritmo a dare un senso di “calore” che, unitamente alle capacità imitative dell’attore, conferisce all’opera un’illusione di realtà.

La teoria antiemozionalista trova un altro sostenitore in Gotthold Ephraim Lessing, scrittore, filosofo e drammaturgo tedesco, che critica il trattato di Sainte-Albine. Inizialmente Lessing traduce Le comedien in tedesco, ma poi ne pubblica solo un riassunto, motivando la scelta con due ragioni: la prima è che le opere francesi cui Saint-Albine faceva riferimento non erano state rappresentate in Germania e quindi gran parte delle osservazioni presenti nel trattato sarebbero risultate incomprensibili al lettore tedesco, la seconda è che giudicava errata la visione del teatro di Sainte-Albine.
Secondo Sainte-Albine, <<le modifiche esteriori del corpo sono conseguenza naturale della essenza interiore dell’anima>> e Lessing concordava, ma precisando che questo è quanto accade normalmente nella vita quotidiana. Questo implica una resa <<imperfetta>> del sentimento, che, al contrario, a teatro va rappresentato <<nella maniera migliore>>. L’attore deve riprodurre i comportamenti reali ma <<in modo generale>>, in una forma paradigmatica nella quale il pubblico possa in parte riconoscersi. Aggiunge inoltre Lessing che, nell’imitazione dei gesti e dei toni esemplificativi di determinate situazioni, l’attore dispone di conseguenza il proprio stato d’animo, rovesciando la prospettiva di Sainte-Albine: non dal sentimento scaturisce l’azione, ma dall’azione il sentimento.
Fine prima parte

Bibliografia:

C. Vicentini, "Teorie della recitazione. Diderot e la questione del paradosso", in Storia del teatro moderno e contemporaneo, 2000, Einaudi, Torino


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