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David Garrick in una scena di Enrico III, ritratto da William Hogarth |
Nella concezione estetica dell’antica Grecia, la parola poetica scaturisce direttamente dalla divinità e il poeta ne viene invasato. Questa possessione, secondo Platone, contagia gli attori e poi gli ascoltatori creando <<una catena di invasi dalla divina ispirazione>>.
Secondo Aristotele, i poeti drammatici che si
esprimono con efficacia sono coloro <<che vivono di volta in volta le
passioni che vogliono rappresentare>>. La partecipazione emotiva è dunque
elemento imprescindibile dall’interpretazione, che interessa tanto il teatro quanto l’arte oratoria.
Il tema della partecipazione emotiva riaffiora
frequentemente nei secoli seguenti, ma, nel corso del XVIII secolo, viene
affrontato per la prima volta come un problema tecnico da analizzare nel suo
rapporto con le componenti razionali e consapevoli della recitazione. Come
interagiscono sensibilità e ragione nell’esperienza artistica? Attori e teorici
cercarono di rispondere a questo interrogativo.
Tra Seicento e Settecento si anima il contrasto tra i
sostenitori della recitazione semplice
e naturale e quella, allora dominante, esagerata e artificiale, contrasto iniziato nel corso del Seicento sui
palcoscenici parigini. Gli attori Baron (allievo di Molière) e Adrienne
Lecrouveur erano esponenti dello stile semplice, mentre Bellerose e Montfleury
e poi Beaubourg e Mademoiselle Duclos erano esponenti dello stile magniloquente.
Entrambi gli stili apparirebbero allo sguardo
contemporaneo piuttosto convenzionali, perché si supponeva che la
rappresentazione scenica dovesse sempre esprimere immagini ideali, gradevoli ed
esemplari; inoltre le scenografie, i costumi e la versificazione tendevano a
ripetere schemi simili. Tuttavia, i due stili erano in effetti differenti tra
loro, soprattutto per il trattamento del testo.
L’attore della scuola artificiale usava esaltare alcune caratteristiche personali e mantenere
un unico tipo di interpretazione nelle diverse rappresentazioni. Bellerose si
distingueva per l’eleganza dei modi, al punto che i suoi critici dicevano di
lui che dava l’idea di cercare il modo di appoggiare il cappello in scena senza
sciuparne le piume, Montfleury risultava particolarmente pomposo e di Beabourg si
diceva che urlasse freneticamente.
Li accomunava la declamazione dei versi che
privilegiava l’effetto sonoro, musicale delle parole, mentre le pause erano
utilizzate soprattutto per enfatizzare frasi ad effetto. In chiusura, si usava
elevare il tono per suscitare l’appaluso del pubblico.
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Adrienne Lecrouveur, ritratta da Nicolas Colombel |
Il nuovo stile si stava però diffondendo. L’attore
inglese David Garrick nella seconda metà del Settecento ne incarna il modello.
Garrick era molto versatile e interpretava diversi personaggi con
atteggiamenti, toni e gesti di volta in volta differenti: adattava la sua
interpretazione al personaggio e non tutti i personaggi ad un modello
interpretativo fisso. Si esprimeva con naturalezza mostrando i sentimenti del
personaggio e usava la mimica e il comportamento non solo quando aveva la
parola, ma anche mentre erano gli altri attori ad avere la battuta, mostrando
una reazione pertinente. Agiva inoltre
tenendo conto della situazione: come osservò Macklin, Romeo non entrerebbe nel
giardino dei Capuleti declamando a gran voce, rischiando di essere scoperto e
magari di ingaggiare un duello con qualcuno dei suoi nemici, ma si
avvicinerebbe furtivamente al balcone di Giulietta e plausibilmente la
corteggerebbe sussurrando.
Nell’insieme, tutto questo è rivoluzionario per
l’epoca.
Oltre che attraverso il lavoro degli attori, il
dibattito sugli stili viene affrontato anche attraverso la scrittura di saggi
teorici.
Nel suo trattato Dell’arte
rappresentativa, pubblicato a Londra nel 1728, Luigi Riccoboni, prima
attore e capocomico e successivamente teorico e storico del teatro, sostiene la
recitazione naturale, che ritiene più
efficace rispetto alla magniloquenza dello stile opposto.
Va detto che uno stile non si sostituisce completamente
all’altro, entrambi vengono praticati, anche se da compagnie diverse e gran
parte del pubblico continua ad apprezzare lo stile declamatorio.
È utile anche una precisazione rispetto a quello che
si intende nel Settecento per recitazione
naturale. Riccoboni fa notare, nel suo trattato, che spesso nella vita
reale il fango e l’oro sono mescolati; l’opera teatrale non
deve, a suo avviso, rispecchiare la realtà fino a questo punto, deve piuttosto
mostrare una natura bella, esemplare.
Per esempio, un principe, secondo la visione estetica di Riccoboni, deve
manifestare atteggiamenti sempre dignitosi, consoni al proprio rango, evitando
cadute di stile, fragilità o immoralità.
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Michel Baron, ritratto da Francois Courboin |
L’attore doveva essere <<proteiforme>>,
in grado di ricoprire ruoli diversi, esprimendosi con voce e comportamenti
commisurati all’azione e non doveva mai trascurare la mimica del viso, doveva
evitare la dizione cantilenante e doveva prestare attenzione all’interlocutore,
senza badare al pubblico. Per fare questo, non poteva, secondo Riccoboni,
cercare stimoli esteriori, ma lasciar nascere interiormente i sentimenti che
avrebbero dato vita alla rappresentazione del personaggio. La partecipazione
emotiva era indispensabile, quindi, alla naturalezza della recitazione.
Scrive Riccoboni: <<Senti il timore, e l’occhio
tuo dimesso l’esprimerà; e senti un gran furore, e l’ardire vedrassi in loro
impresso.>>
Non gli sfuggì l’obiezione più ricorrente (anche ai
nostri giorni) in fatto di recitazione partecipata emotivamente: se un attore
deve interpretare qualcosa che non ha mai provato o che percepisce molto
lontana da sé, come fa a provare dei sentimenti autentici?
Riccoboni, per così dire, si arrende di fronte a
questo problema, sostenendo che in tal caso all’attore è concesso di ricorrere
all’imitazione <<e sia fittizio il Ver, s’altro non puoi.>>
Riteneva tuttavia che l’imitazione esponesse l’attore
ai rischi dell’esagerazione, come quello di stordire con voce tonante gli
spettatori vicini per farsi udire anche da quelli lontani; senza il sentimento,
trovare la giusta misura risultava più difficile.
Anche Rèmond de Sainte-Albine, autore del trattato Le comèdien (1747), sposa la teoria
emozionalista.
Sainte-Albine descrive nel suo trattato le
caratteristiche dell’attore, un insieme coordinato di doti naturali e tecniche
acquisite.
Le doti naturali includono i tratti fisici e altri
tratti interiori quali: la capacità di comprendere il testo di un’opera
teatrale e di individuarne le potenzialità della resa scenica; quello che
Sainte-Albine chiama l’esprit, cioè
la capacità di comprendere di quale stoffa sia fatto il personaggio, evitando
di incorrere in contraddizioni, il sentimento, la capacità di provare le
emozioni nella situazione in cui si sta agendo, perché il semplice ricordo non
sarebbe sufficiente; il feu, l’energia
vivificante che, seguendo un paragone dello stesso Sainte-Albine, sta al
sentimento come il movimento dell’aria alla fiamma.
La tecnica costituisce quelli che Sainte-Albine
definisce gli aiuti: si tratta della
capacità di interpretare il personaggio valutandone il carattere, l’età, la
condizione sociale, l’appartenenza ad una certa epoca storica e ad un certo
paese, dosandone l’intensità delle passioni a seconda delle scene dell’opera.
Anche in questo caso, la somiglianza con la realtà
storica, sociale, caratteriale non va intesa in modo del tutto realistico, la somiglianza
ci deve essere, ma <<in bello>>. L’opera teatrale deve rimanere,
anche per Sainte-Albine, una immagine ideale.
Vi sono poi le esigenze tipiche della
rappresentazione teatrale, come la necessità di farsi udire e vedere in tutta
la sala, che rende l’espressività più marcata rispetto alla quotidianità.
Sainte-Albine precisa, però, che gli eccessi
vanno comunque evitati.
Riguardo al problema della partecipazione emotiva in
situazioni mai esperite, Sainte-Albine afferma che l’attore, <<molle
cera>> plasmabile a qualunque stato emotivo, deve essere in grado di
trovare in sé ogni sentimento. Corregge
in seguito la sua posizione, aggiungendo che ogni attore riesce meglio nei
ruoli che più gli somigliano e che quindi bisogna scegliere gli attori
<<non solo per ogni diverso genere di opere, ma anche per ogni specie
particolare di ruoli.>>
Sainte-Albine introduce un’altra questione oggetto di
discussione anche successiva: la mobilità
della recitazione, cioè la sua variabilità, non solo in parti differenti, ma
anche nell’interpretazione della stessa parte. <<Quando un attore ha del feu è ben penetrato nella sua
situazione. […] Benché sia obbligato, recitando la stessa parte, ad apparire la
stessa persona, trova il modo di apparire sempre nuovo.>> e questo perché
il sentimento non si manifesta ogni volta in modo identico.
Il figlio di Luigi Riccoboni, François, nel 1750
pubblica L’art du theatre, in cui
espone una teoria esplicitamente antiemozionalista.
Anche François Riccoboni sostiene la recitazione semplice e naturale, la coerenza del comportamento dell’attore con il
contenuto della battuta, con la situazione e il carattere del personaggio, ma
afferma che per rendere la recitazione efficace, è necessario che l’attore non
provi realmente i sentimenti che sta interpretando, perché altrimenti
rischierebbe di esserne sopraffatto, e, per esempio, di non riuscire a
pronunciare parola durante un momento di vera commozione. La estrema sintesi
dell’opera teatrale, inoltre, richiede che diversi sentimenti si succedano
piuttosto rapidamente, con un ritmo innaturale col quale i reali sentimenti
dell’attore non potrebbero stare al passo. È piuttosto questo stesso ritmo a
dare un senso di “calore” che, unitamente alle capacità imitative dell’attore,
conferisce all’opera un’illusione di realtà.
La teoria antiemozionalista trova un altro
sostenitore in Gotthold Ephraim Lessing, scrittore, filosofo e drammaturgo
tedesco, che critica il trattato di Sainte-Albine. Inizialmente Lessing traduce
Le comedien in tedesco, ma poi ne
pubblica solo un riassunto, motivando la scelta con due ragioni: la prima è che
le opere francesi cui Saint-Albine faceva riferimento non erano state
rappresentate in Germania e quindi gran parte delle osservazioni presenti nel
trattato sarebbero risultate incomprensibili al lettore tedesco, la seconda è
che giudicava errata la visione del teatro di Sainte-Albine.
Secondo Sainte-Albine, <<le modifiche esteriori
del corpo sono conseguenza naturale della essenza interiore dell’anima>>
e Lessing concordava, ma precisando che questo è quanto accade normalmente
nella vita quotidiana. Questo implica una resa <<imperfetta>> del
sentimento, che, al contrario, a teatro va rappresentato <<nella maniera
migliore>>. L’attore deve riprodurre i comportamenti reali ma <<in
modo generale>>, in una forma paradigmatica nella quale il pubblico possa
in parte riconoscersi. Aggiunge inoltre Lessing che, nell’imitazione dei gesti
e dei toni esemplificativi di determinate situazioni, l’attore dispone di
conseguenza il proprio stato d’animo, rovesciando la prospettiva di Sainte-Albine:
non dal sentimento scaturisce l’azione, ma dall’azione il sentimento.
Fine prima
parte
Bibliografia:
C. Vicentini, "Teorie
della recitazione. Diderot e la questione del paradosso", in Storia del teatro moderno e contemporaneo,
2000, Einaudi, Torino
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