martedì 10 marzo 2015

A proposito di Birdman



Birdman. Michael Keaton nel ruolo di Riggan Thomson.

Birdman è un film di Alejandro Gonzales Inarritu, già perché parlare di Birdman in un blog sul teatro? Perché è ambientato a Broadway durante le prove di uno spettacolo teatrale e quindi già solo per questo merita la mia attenzione e di quelli -come me- a cui basta vedere quattro assi di legno per terra per iniziare a declamare versi più o meno immortali o per immaginare altri mondi, o -per meglio dire- per entrarci in quei mondi, gli unici che interessano davvero a chi ama il teatro, gli unici che esistono davvero per chi il teatro lo “fa” come Mike Shiner, il personaggio interpretato da Edward Norton, che si sente a suo agio e dichiara di poter essere “vero” solo sulla scena.

Il rapporto tra realtà e finzione attraversa tutto il film.
Riggan Thomson, il personaggio splendidamente interpretato da Micheal Keaton, sa volare davvero? Sposta davvero gli oggetti col pensiero? Parla davvero con il personaggio del supereroe che lo aveva reso famoso e ricco negli anni ’90 (Birdman, appunto)? E soprattutto Riggan è un vero attore o solo un cialtrone che a suo tempo ha avuto un gran bel colpo di fortuna?

Il personaggio attraversa una crisi d’identità; fallito come marito, come padre, come attore, si gioca il tutto e per tutto dirigendo e interpretando uno spettacolo tratto da Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? di Raymond Carver.

Il teatro è il luogo del suo riscatto.  
Un luogo che viene contrapposto al cinema quando qualcuno insinua che sia meno rischioso per un attore, data la sua minore visibilità, in realtà non è certo un posto adatto ai pavidi: non ci sono nascondigli, il corpo dell’attore è presente sulla scena davanti al suo pubblico e la reazione del pubblico è palpabile. Persino nei corridoi, dietro le quinte, nei camerini dove tutti entrano senza bussare, l’attore è scoperto, quindi anche le immagini e le voci interiori “si vedono” e si sentono.
Le emozioni dei personaggi e degli attori che li interpretano tendono a confondersi. La ragazza di Riggan dice di essere incinta (anche se non lo è) e il suo personaggio dichiara in un monologo di aver desiderato la maternità. Mike fa una scenata per avere del vero gin da bere sul palcoscenico e, a quanto pare, si sente più attratto dalla sua partner durante la finzione scenica, mentre recitano di essere degli amanti, piuttosto che nella vita reale.

La questione però non è soltanto cosa sia o non sia reale, ma cosa vada mostrato al pubblico e cosa no.
Si deve dare al pubblico quello che si aspetta? Oppure occuparsi solo della propria arte?
L’arte e il piacere del pubblico sono compatibili?
Dice Mike (cito a memoria): << La popolarità è la sorellina zoccola del prestigio.>> e la temibile critica d’arte del New York Times, col suo sguardo di ghiaccio, rincara la dose indirizzando a Riggan una definizione spietata: <<Tu non sei un attore, sei una celebrità.>>  

Attore e celebrità, come dire: bravura vs fama. Un dilemma molto sentito dagli attori, perlomeno da alcuni. Le due cose sono antitetiche?
Riggan è già stato una celebrità, adesso vuol essere riconosciuto come attore e distanziarsi dal personaggio che sembra perseguitarlo?  
Ad un certo punto, però, racconta alla ex moglie di esser stato in aereo casualmente insieme a George Clooney. Vuoti d’aria, cintura di sicurezza, invece di comuni preoccupazioni, lui immaginava le prime pagine dei giornali in seguito all’eventuale disastro: tutti avrebbero parlato solo di Clooney; di lui non ci sarebbe stata traccia sulla stampa e questa ipotesi lo aveva angosciato molto più della possibilità di non sopravvivere all’incidente. Quindi forse rimpiange ancora la gloria perduta?
È il successo che definisce il valore di un artista (e di un uomo)?

Il protagonista teme di essere stroncato dalla critica, teme di non poter avere la sua occasione di mostrare il proprio talento a causa di un pregiudizio nei suoi riguardi. Sia Riggan che Mike, in momenti diversi, affrontano in un bar la autorevole critica teatrale Tabitha Dickinson ed entrambi contrappongono il lavoro del critico a quello dell’attore. L’attore fa qualcosa, agisce, mette in gioco tutta la sua vita in una serata, il critico si limita a guardare, giudica senza “fare”.

Tuttavia, entrambi desidererebbero una critica positiva, un riconoscimento del loro talento e il giornale offre il vantaggio di essere scritto, ha facoltà di testimoniare l’effimero lavoro dell’attore, che termina alla fine di ogni rappresentazione.
Per Riggan, anche il tovagliolino di carta con sopra i complimenti di Raymond Carver è prezioso, una specie di certificato delle proprie capacità artistiche. Lo conserva fino alla discussione con Tabitha, quando comprende che i due mondi –quello dell’arte e quello della critica d’arte- sono disomogenei e allora smette di preoccuparsene e si concentra sull’essere un attore.

A proposito di giornali, un altro tema presente è il rapporto coi mezzi di comunicazione e qui è la figlia di Riggan, Sam, ad erudirlo sull’utilizzo dei social network.  Avere migliaia di followers su Twitter, <<questo è il potere.>> dice Sam. Le nuove star lo sanno: un video bizzarro che gira su internet è più rilevante di una critica sul New York Times nel decretare il successo di qualcuno. È un fatto che, persino un autentico artista, senza popolarità, ha poche probabilità di avere una carriera. 
La robaccia commerciale che piace al grande pubblico è così disprezzabile?

Riggan sembra trovare il bandolo della matassa, il pubblico vuole degli eroi, scene spettacolari e azioni memorabili e decide di dargliele. Contemporaneamente, esprime la propria autenticità come attore e come uomo disperato, con un gesto “plateale” (è il caso di dirlo) che mescolerà verità e finzione e metterà d’accordo critica e followers. Alla fine del film, dopo essersi tolto la nuova maschera da supereroe fatta di garze e cerotti, riesce a volare per davvero. Forse.
È questo che fanno gli attori: volano. Portano il pubblico sulle ali dell’immaginazione in ambientazioni straordinarie, attraverso la finzione, regalano emozioni reali. Ritrovando se stessi.

La visione del film genera perplessità. Almeno all’inizio. È un film di fantasia? È psicologico? È simbolico? È un documentario? È una commedia o una tragedia? Ci si chiede: in che modo devo “guardarlo”? Così, ad un certo punto, lo si guarda e basta (oppure si esce dal cinema, come ho visto fare a qualcuno).
La struttura stratificata della vicenda, che sembra spargere temi e situazioni a caso, si intensifica e si ispessisce (come una millefoglie) nel corso del film, sfuggendo ad una definizione immediata, creando un reset dei pensieri. Arrendiamoci, gli eroi sono sulla scena, noi siamo gli spettatori, è una questione di ruoli. Se da una parte è la loro forza ad infonderci ispirazione, dall’altra siamo noi a dar loro motivo di esistere. In un gioco di reciproca manipolazione (quel potere di cui parlava Sam).
Cast efficace, sceneggiatura geniale, regia ossessiva. Gli Oscar vinti sembrano confermare che arte e popolarità qualche volta si incontrano.  




                                      
Sitografia:
L’immagine è tratta da www.chicagotribune.com

Se foste interessati alla trama del film, al cast completo e ai premi vinti, rimando a

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